Vulnerabilità delle persone con autismo

di: Autisme Europe

DAL "MANUALE DELLE BUONE PRATICHE NEI CONFRONTI DELLE PERSONE CON AUTISMO"


In seguito alle numerose denunce di maltrattamenti nei confronti di persone autistiche di ogni età,  nel 1997 Autisme Europe presentava alla Commissione europea nell’ambito del progetto DAPHNE un progetto per la redazione di un “Manuale di buone pratiche” nei confronti delle persone con autismo.
Nel manuale, realizzato con il contributo della Comunità Europea nel 1998 da una équipe transnazionale di esperti,  vengono prese in considerazione le forme di violenza cui le persone autistiche sono particolarmente vulnerabili, anche attraverso  le drammatiche testimonianze di familiari, e si identificano strumenti di prevenzione di tali violenze.

Si affrontano problematiche diverse, dalla necessità della formazione specifica di genitori e professionisti agli aspetti etici della terapia farmacologica, alla vulnerabinità delle persone con autismo e delle loro famiglie, soprattutto se abbandonate dai servizi, evidenziando le situazioni a rischio, ma anche dando suggerimenti per prevenire forme di violenza spesso tanto più drammatiche anche per chi le esercita in quanto inconsapevoli espressioni di tentativi di controllo di situazioni incontrollabili.
Nel testo che segue si presentano alcuni brani tratti del Manuale di Buone Pratiche, attualmente disponibile in inglese e francese presso l’associazione internazionale Autisme Europe.
Il manuale è stato tradotto anche in italiano, e sarà presto disponibile presso l’associazione Autismo Italia.

INTRODUZIONE (D. Vivanti)
Al di là dell’handicap autismo, le nostre società scoprono con spavento le statistiche dei casi di violenza all’interno delle istituzioni (fra cui scuole, parrocchie e organizzazioni giovanili) e delle famiglie stesse .

Molte testimonianze riferiscono pratiche inaccettabili nei confronti delle persone autistiche accolte nelle istituzioni, sia ospedaliere che socio-sanitarie. Infatti, come vedremo, se le persone autistiche non sono ahimè le sole vittime di maltrattamenti nei centri,  presentano un rischio di maggiore vulnerabilità a causa delle loro difficoltà o impossibilità a comunicare le esperienze vissute.

La tendenza all’isolamento, il ripiegamento su se stessi, l’apparente indifferenza agli altri e alle cose, l’intolleranza al cambiamento rappresentano altrettanti ostacoli ad una armoniosa vita in comunità. Il misconoscimento di queste difficoltà proprie dell’autismo determina spesso risposte inadeguate da parte degli operatori, genitori o professionisti, che rinforzano a loro volta i problemi di comportamento e aprono la strada a diverse forme di maltrattamento.
Per questo motivo Autisme Europe ha presentato un proprio progetto di stesura di un “ manuale di buona pratica” nei confronti delle persone con autismo, che è stato approvato e finanziato nell’ambito del progetto europeo Daphne.
Il manuale è stato redatto da una équipe di professionisti di diversa nazionalità, formazione e cultura, e da un genitore per quanto riguarda la parte concernente la famiglia.

Per quanto riguarda la mia parte in quest’opera, vorrei innanzi tutto ringraziare i genitori che mi hanno confidato i loro problemi e il loro dolore, non solo attraverso le lettere, ma anche durante le conversazioni avute in questi  anni, e che sono i veri autori del testo che ho scritto.

In questo manuale vengono prese in considerazione le forme di violenza cui le persone autistiche sono particolarmente vulnerabili, anche attraverso  le drammatiche testimonianze di familiari, e si identificano strumenti di prevenzione di tali violenze.
I centri istituzionali vengono identificati come situazioni di per se stesse a rischio di violenza e abuso, e per questo motivo la legge italiana (la famosa “180” ) privilegia una presa in carico sul territorio.

Tutto bene allora in Italia? Certamente no, perchè anche la negligenza , nei confronti di persone il cui futuro dipende più da una presa in carico specifica, tempestiva, generalizzata e costante che dalla gravità dell’handicap stesso, si configura come un grave abuso, una violenza sul diritto della persona di sviluppare al meglio le proprie potenzialità.

Anche quando i ragazzi o gli adolescenti hanno beneficiato durante l’età scolare di aiuti educativi e terapeutici corretti, in età adulta i genitori assistono impotenti al deterioramento del loro stato fisico e mentale per mancanza di proposte adeguate.
Questa carenza nei servizi di presa in carico costituisce ai nostri occhi una ulteriore violenza nei confronti sia delle persone autistiche che delle loro famiglie.
Allo stesso modo della mancanza di controllo dei poteri pubblici sui criteri di ammissione da parte dei servizi, qualora non ci sia una disponibilità di posti che risponde interamente alle esigenze del territorio.

Ne derivano discriminazioni nell’orientamento dell’accoglienza: i casi detti gravi saranno il più delle volte lasciati da parte, essendo la tentazione delle équipe quella di reclutare persone con un più elevato grado di autonomia e di selezionare le ammissioni in funzione della costituzione di gruppi di persone con minori problemi di comportamento, in contrasto con la legge quadro 104 che indica nella gravità un fattore di precedenza per usufruire dei servizi.

MALTRATTAMENTO NELLE ISTITUZIONI (A. Foubert)
I cattivi trattamenti fanno molto spesso riferimento a brutalità, assenza di cure e negligenza che comportano grave disturbo dello stato generale o lesioni fisiche. Sarà necessario parlare in particolare del rischio di abuso e di aggressione sessuale che alcune situazioni possono favorire.Tuttavia il maltrattamento riguarda spesso altre pratiche più insidiose, altrettanto preoccupanti.
Testimonianza
Malgrado le nostre preoccupazioni e contro il nostro parere il medico responsabile del centro ha prescritto a nostra figlia un  pesante  trattamento farmacologico. Le hanno somministrato dosi pesantissime di neurolettici malgrado il fatto che la paralizzassero pericolosamente. Al ritorno a casa, cadeva pericolosamente in avanti, e noi dovevamo camminare davanti a lei per evitare che quando si bloccava cadesse subendo dei traumi, spaccandosi le labbra, ferendosi le ginocchia, rovinandosi le mani.

Un giorno ha rischiato di annegare in piscina. Quando mi sono lamentata dell’abbrutimento provocato dai farmaci, il medico mi ha risposto:” Cade per farsi prendere fra le sue  braccia ”! E le educatrici avevano il coraggio di farle gli occhiacci e di sgridarla davanti a me perchè camminasse dritta e la smettesse di sbavare. Perchè nessuno fa qualcosa per proteggere queste vittime innocenti dai loro carnefici?
Adesso, da tre anni, sta con noi e vive senza farmaci. Abbiamo finito per trovare un neuropsichiatra che capisce i suoi problemi, e finalmente la nostra vita familiare è tornata ad essere serena .

(Testimonianza di L. P.)
Nel 1994, Eliane Corbet definì le violenze nelle istituzioni come tutto ciò che è contrario e si oppone alle leggi dello sviluppo ( dove sviluppo è inteso nelle sue diverse dimensioni psicoaffettiva, cognitiva, fisica, sociale), tutto ciò che privilegia gli interessi dell’istituzione rispetto agli interessi dell’utente. L’autore enumera in proposito le seguenti pratiche:

  • violenze psichiche (che pregiudicano il futuro equilibrio psichico),

  • linguaggio sprezzante (intenzionalmente offensivo, ingiurioso, umiliante) che attenta alla stima di sè e della famiglia,

  • minacce ( concernenti la continuità della relazione o della presa in carico) talvolta messe in atto,

  • ricatto sull’efficacia dell’impegno professionale,

  • controllo minuzioso anche nell’intimità che denota una volontà di dominio sulla persona,

  • sottrazione arbitraria del bambino o dell’adolescente alla famiglia o eccesso di divieti,

  • violenze derivate da omissioni, incoerenza, dimenticanza , trascuratezza.

A questo elenco aggiungeremo i seguenti abusi, troppo spesso riscontrati nella presa in carico delle persone autistiche:

  • prescrizioni farmacologiche inappropriate finalizzate più alla tranquillità del personale che al benessere della persona,

  • trascuratezza nei confronti dei problemi di salute fisica (fra cui il mal di denti o le coliche addominali che spiegano molti problemi di comportamento),

  • negligenza dell’igiene personale (nell’attesa che la persona manifesti il desiderio di prendersi dura di sè spontaneamente),

  • ignoranza degli interessi della persona e delle sue preferenze alimentari (compresa l’imposizione di menù senza alcun riguardo per i suoi gusti),

  • attività inesistenti o ripetitive o inadeguate alle difficoltà e alle competenze della persona,

  • tempi di attesa ingiustificati (fonte di ansia e conseguentemente di agitazione) motivati da esigenze del personale

Testimonianza:
Una sera al rientro dal day hospital, come al solito, stavamo per fargli fare il bagno. Al momento di spogliarlo ci accorgiamo che ha profonde ferite sulla schiena, ematomi sul collo, sulle spalle e sulle braccia. Chiamiamo immediatamente il medico di famiglia che constata e certifica lo stato in cui C. si trova dopo una giornata trascorsa in istituto.
Il giorno dopo decidiamo cmunque di riportarlo in istituto. L’équipe non era contenta di vederci perché non l’avevamo avvisata del nostro arrivo. Insistiamo per essere ricevuti dalla Direttrice dell’ istituto. Riteniamo di avere diritto a delle spiegazioni. Alla fine ci viene concesso di parlarle e le consegniamo il certificato medico.
Esprime sorpresa e dice:”Non è successo qui”. Noi rispondiamo che di certo non è successo a casa nè tantomeno sul pulmino che riporta i bambini a casa. L’autista ce ne avrebbe parlat,o dal momento che era la sola persona con cui potevamo parlare del comportamento di C. Solo all’ultimo giorno siamo stati informati dal medico psichiatra del Day Hospital che C. non sarebbe più stato accolto, senza la minima preparazione né il minimo riguardo e soprattutto senza la minima prospettiva di presa in carico all’infuori dell’internamento in Ospedale Psichiatrico (CHS), da noi rifiutato.
Coscienti della nostra impotenza di fronte a tale genere di abuso, decidemmo di non affidare C. ad altri istituti ma di tenerlo a casa.Oggi, a distanza di cinque anni, siamo convinti che questa sia stata la soluzione migliore.Questa scelta ha comportato l’abbandono dell’attività professionale e la pensione anticipata dalla funzione pubblica per mia moglie.

La particolare vulnerabilita’ delle persone autistiche
Forse dovremmo iniziare con l’accettare il fatto che il primo atto di violenza di cui soffre la persona autistica è l’essere nata autistica.

I deficit di linguaggio e/o di attitudine a comunicare rendono le persone autistiche vulnerabili e gli autori di atti violenti possono facilmente negarne la responsabilità:  la ragione fondamentale per la quale la violenza può essere usata nel corso del trattamento delle persone autistiche è semplicemente la possibilità di farlo: in molti casi, le persone autistiche non si pronunceranno affatto in proposito, o lo faranno parzialmente o attraverso modi di comunicazione alternativi. Anche se la persona autistica è verbale non sarà in grado di riferire fatti di cui altri o essa stesa sono stati vittime, soprattutto se l’autore degli atti violenti propone un’altra versione.

La violenza aumenta nelle situazioni in cui le possibilità di essere scoperti sono minime (Blunden & Allen, 1987).

Il successo a breve termine della violenza può incoraggiarne l’uso, e se non viene scoperta il ciclo degli abusi può continuare.

Inoltre esistono forme più sottili di violenza: non dimentichiamo che per una persona con autismo, anche il più piccolo dettaglio ha la sua importanza: l’immotivata assenza di un educatore, la modifica di un programma di attività, la mancanza di prevedibilità nel tempo sono altrettante situazioni concrete che possono avere gravi ripercussioni per un soggetto autistico.

Quando i sintomi di autismo non sono correttamente interpretati , la solitudine e lo sconforto si aggravano. La persona si sente improvvisamente inserita in un contesto  le cui regole le sfuggono totalmente.

Non c’è dunque da sorprendersi se la persona autistica reagisce con una recrudescenza dei problemi di comportamento rendendo ancor più difficile la sua accettazione da parte dei compagni e degli educatori.

La seconda violenza è quella conosciuta dalla famiglia la cui vita precipita improvvisamente in una situazione di sgomento. In mancanza di sostegno al momento dell’apparire dei disturbi, si vede a volte costretta alla discordia e alla disperazione che in certi casi porta al maltrattamento.

Sino a poco tempo fa gli esperti erano a favore della separazione della persona autistica dai legami e dall’affetto della famiglia nell’interesse della sua salute e di una possibile cura. Tale violenza della separazione condannava la persona autistica a una esclusione sociale e familiare per nulla giustificabile. Additati e allo stesso tempo privati di giusti consigli che avrebbero potuto metterli in grado di accettare e di lavorare con il loro figlio, i genitori vivevano in un clima di violenza che l’attuale approccio all’autismo dovrebbe permettere di evitare.

Alcuni ambienti terapeutici ancora oggi tuttavia rifiutano qualsiasi collaborazione con le famiglie, considerate difficili o patologiche. Le informazioni mediche sono tenute segrete e né la persona con autismo né i parenti hanno diritto all’informazione. Soprattutto rifiutano alla persona autistica quel sostegno affettivo che solo i genitori e i parenti più vicini sono in grado di darle.

I fattori di rischio
Se nel nostro paese la scelta di non istituzionalizzare i disabili psichici dovrebbe garantire un minore rischio di abuso, situazioni che inducono alla violenza sono insite nella organizzazione stessa dei nostri servizi.

  1. Mancanza di strutture adeguate
    I bambini e gli adolescenti autistici in Europa sono in parte esclusi dal mondo dell’educazione, persino da quella specializzata. In Francia, più di un terzo dei bambini autistici non vengono seguiti e restano a carico delle famiglie.
    In Italia tutti i bambini, a parole, hanno diritto a frequentare la scuola pubblica.
    Nei fatti, il disconoscimento delle difficoltà specifiche dell’handicap e l’interpretazione ingenua del termine “integrazione” come mezzo in sè sufficiente a garantire le pari opportunità comportano situazioni di grande sofferenza per il bambino e per la famiglia, e spesso la richiesta della scuola di limitare il tempo di frequenza, o l’abbandono scolastico da parte della famiglia esasperata, non certo contrastato dalle istituzioni.
    Con l’adolescenza e l’età adulta, la mancanza di strutture d’accoglienza si fa sentire ancor più crudelmente.

  2. Mancanza di formazione professionale
    Testimonianza
    Non esisteva alcun dialogo con i genitori. La diagnosi di autismo confermata dal nostro medico curante veniva smentita quando ne facevamo menzione. Nel giro di qualche mese, a G. è stato negato l’uso della piscina con grande stupore da parte nostra, dal momento che G. adorava l’acqua.
    Ma ciò gli procurava troppo piacere e poteva nuocere allo sviluppo della comunicazione! (sic). Il metodo di comunicare per mezzo di immagini proposto dal Centro di C. dava risultati molto positivi, ma il Day Hospital rifiutava categoricamente di utilizzarlo.” Deve uscire da solo dal suo stato. Non siamo qui per educare”.
     A dodici anni avevamo un figlio incontinente sia di giorno che di notte, che mangiava con le mani, violento, ostile, che impiastricciava le pareti della sua camera con i suoi escrementi e rompeva i vetri delle finestre.
     Nel 1991 G. fu accettato in un centro specializzato nella cura dei sordi e dei ciechi. Professionalmente avevamo lasciato tutto e avevamo traslocato. Nel giro di un mese abbiamo ritrovato un bambino calmo, rilassato (senza trattamenti medici).
    Dopo qualche mese era tornato continente, aveva imparato a stare a tavola. Il centro aveva ripreso con lui la comunicazione per immagini e gesti. Questo centro aveva svolto una pratica educativa insegnandogli l’autonomia e le relazioni sociali. Organizzava anche un grosso lavoro di scambio con le famiglie (fine settimana con i genitori, confronto sui programmi educativi). Dopo 7 anni G. è migliorato. è felice e la nostra vita è tornata quasi normale: andiamo in vacanza, al ristorante, ecc.
    Certo, è ancora gravemente disabile e avrà sempre una vita protetta, ma la cosa più importante è che nel suo stato possa svilupparsi. Che dire degli anni persi quando sappiamo che s’impara soprattutto nell’infanzia?. Che spreco per questi bambini e per le loro famiglie! E questo succedeva sino a poco tempo fa. Speriamo che non succeda mai più! (M.B.)

    Come ogni essere umano, la persona autistica vuole imparare e agire, ma non può farlo che in un quadro adeguato al suo livello di sviluppo. Tuttavia i metodi tradizionali di formazione non preparano sempre i futuri operatori, o cosa più grave li preparano male al confronto con queste persone affette da disturbi del comportamento.
     Per molti professionisti permane l’opinione comune che l’autismo si identifichi con la manifestazione di comportamenti bizzarri o aggressivi e il comportamento è spesso interpretato in un modo che non considera le difficoltà specifiche di questo handicap.
    Le recenti ricerche sull’autismo obbligano quindi i professionisti a un dovere di formazione permanente e a una rivoluzione culturale per comprendere meglio i problemi dei soggetti loro affidati.

FATTORI DI RISCHIO NELL’AMBIENTE FAMILIARE (D. Vivanti)
Non si ripeterà mai abbastanza che la famiglia non ha alcuna responsabilità nel causare l’Autismo del proprio bambino, come purtroppo nessun genitore può evitarlo.
Ciò detto, il bambino autistico non è evidentemente per questo al riparo dal maltrattamento nell’ambiente familiare.
Al contrario  le caratteristiche stesse dell’autismo, rappresentando fin dai primi mesi di vita del bambino un  fattore di stress per la famiglia, costituiscono un fattore di rischio di maltrattamento.

L’eccesso di aspettative, il divario fra il bambino reale e il bambino immaginato che espone i bambini con handicap al rischio di maltrattamento, è ancora maggiore nel caso dell’autismo, a causa della mancanza di segni fisici evidenti e di condizionamenti culturali obsoleti: è facile che all’aspetto fisico normale si accompagni un eccesso di aspettative.
Le caratteristiche comportamentali dell’autismo inoltre costituiscono un fattore di stress per la famiglia, e generano essi stessi un rischio di abuso.

La famiglia è il primo ambiente sociale nel quale ogni bambino si trova a vivere: l’integrazione nell’ambiente familiare è quindi il primo obiettivo educativo nei confronti del bambino autistico.

Aiutare il bambino autistico a sviluppare le sue capacità sociali e i suoi interessi nell’ambiente domestico deve costituire il primo passo del processo riabilitativo e ha come conseguenza verso un miglioramento della qualità della vita per lui e per la famiglia: il benessere del bambino e della sua famiglia sono imprescindibili.

  1. Disturbo dell’interazione sociale
    Testimonianza:
    All’inizio, non sapevamo che nostro figlio era autistico. Era talmente  carino, talmente vivace, talmente disinvolto...; sembrava capire tutto, almeno quando gli faceva comodo, perché se qualcosa non gli andava, faceva il sordo. Allora dovevamo gridare per farci ascoltare. Quando mio marito o io ci arrabbiavamo, si degnava di prestare attenzione. Credevamo che fosse pigro, ostinato, non sapevamo che fosse autistico.(Testimonianza verbale di genitori di un giovane autistico).
    L’indifferenza del bambino autistico, vera o apparente che sia, nei confronti di genitori che hanno già investito amore e devozione sulla loro creatura apparentemente perfetta, costituisce una vera e propria tragedia affettiva: i genitori si sentono rifiutati dal bambino che non corrisponde ai loro sentimenti, ma che non possono nè vogliono abbandonare.
    Alcuni bambini autistici possono anche dimostrare un grande attaccamento per i genitori; ma anche in questo caso il senso di responsabilità verso la loro creatura che intuiscono essere indifesa di fronte al mondo e di cui comprendono ben presto la sofferenza li  spinge a cercare di aiutarla con ogni mezzo, senza riuscire a tradurne l’attaccamento  in partecipazione emotiva o in apprendimento.
    Talvolta può capitare che i genitori, nel lodevole tentativo di aiutarlo e stimolarlo, gli impongano una promiscuità sociale eccessiva, senza rendersi conto che la sua incapacità di capire l’ambiente e la complessità delle regole implicite nelle nostre relazioni sociali lo espongono alla sofferenza, all’umiliazione e al senso di inadeguatezza.
    Questi insuccessi non rappresentano solo una violenza psicologica, ma anche un fattore di rischio di maltrattamento fisico: il bambino che non risponde alle cure e ai tentativi educativi dei genitori può essere considerato pigro e testardo, e diventare vittima di punizioni ingiustificate.

  2. Disturbo della comunicazione
    I genitori si accorgono ben presto dei problemi di comunicazione del bambino, ma spesso cercano di placare l’angoscia aggrappandosi come ad un’ancora di salvezza alle parole di conforto di amici, parenti e talvolta anche all’incomprensione di professionisti incompetenti: ”Ogni bambino ha un suo ritmo di crescita... Il bambino non ha niente, siete voi che siete troppo ansiosi e che dovreste curarvi...”.
    Ma il fallimento di ogni tentativo educativo li snerva e avvelena i rapporti familiari, e l’apparente mancanza di collaborazione da parte del bambino, mal interpretata, lo espone al rischio di essere punito per la sua disobbedienza, di cui non è in alcun modo responsabile. In una parola, di essere punito per il suo handicap.

  3. Problemi di comportamento
    La vita di famiglia è ben presto sconvolta dai problemi di comportamento del bambino autistico, soprattutto se il bambino sviluppa atteggiamenti etero o auto aggressivi: niente è più doloroso per i genitori che assistere impotenti al dramma del figlio che si picchia, si graffia,  batte la testa contro il muro, o che, accompagnato in mezzo ai coetanei con il cuore colmo di speranza, li respinge a calci e morsi.
    Anche manifestazioni meno gravi, come grida, scoppi di riso o di pianto apparentemente immotivati, lancio di oggetti, o qualunque altra attività stereotipata, possono spingere i genitori esasperati a ricorrere ai castighi; e di nuovo il bambino sarà punito per il suo handicap.

    I problemi di comportamento accrescono quindi il rischio di abbandono educativo o di abuso di mezzi di correzione.
    Inoltre, ciò che viene percepito come violenza nei confronti di un adulto (come immobilizzarlo a forza o punirlo fisicamente per i comportamenti disturbanti) nei confronti di un bambino, che pure è più debole e più indifeso, può più facilmente essere considerato come uno strumento educativo o un intervento necessario (per il suo bene!).

  4. Logorio della famiglia
    La vita con un bambino autistico è massacrante: spesso ai problemi di comportamento, già così difficili da gestire, si aggiungono l’iperattività e i problemi di sonno e di alimentazione.

    Il bambino iperattivo, inconsapevole dei pericoli, non lascia un attimo di tregua, e la casa finisce ad assomigliare più a una nuda prigione che ad un focolare: le porte e le finestre barricate, i soprammobili nascosti, le sostanze pericolose messe al sicuro fuori della sua portata; e ancora non basta: restano da sorvegliare i rubinetti, i fornelli, le provviste, le bevande, e così via.

    Uscire non dà alcun sollievo: una passeggiata al parco può trasformarsi ben presto in inseguimento affannoso; un attimo di distrazione può essere fatale.
    Nemmeno i genitori di un bambino autistico tranquillo sono al riparo dal logorio: il suo isolamento, quelle ore e ore passate a guardarsi le mani o a giocare con uno spago li angosciano, e li spingono a cercare di coinvolgerlo in una attività qualunque, non ricevendo di regola dai loro sforzi  che ulteriore frustrazione.
    Non esistono vacanze, ammalarsi è un lusso, riposarsi impossibile: la fatica è schiacciante, i rapporti familiari ne sono ben presto compromessi, gli altri figli necessariamente trascurati; lo stress della famiglia diventa cronico e il rischio di maltrattamento ne è gravemente aumentato.

  5. False credenze sull’autismo
    La credenza secondo la quale l’autismo sarebbe imputabile ad una cattiva relazione madre-bambino rappresenta un ulteriore fattore di stress: anche nella famiglia più consapevole  il dubbio si insinua, si rimugina il passato, e il senso di colpa logora la coppia e mina fatalmente il già difficile rapporto con il bambino.
    Anche nel caso in cui i genitori non siano esplicitamente colpevolizzati, la concezione psicogenetica dell’autismo può generare delle aspettative esagerate nei confronti del bambino, da una parte incoraggiando l’idea che il bambino rifiuti volontariamente di aprirsi, e che basti trovare la chiave del suo rifiuto per trasformarlo in un bambino normale, dall’altra spingendo i genitori a rinunciare al proprio compito educativo per paura di interferire negativamente in questo improbabile processo di guarigione.
    La falsa credenza che i bambini autistici siano tutti molto intelligenti  comporta evidentemente lo stesso rischio.

  6. Incomprensione sociale
    Succede molto spesso che i comportamenti bizzarri dei bambini autistici siano considerati dall’ambiente sociale come manifestazioni di maleducazione di cui è responsabile la famiglia: frasi come “ se fosse mio figlio, saprei io come educarlo...” sono ben conosciute dalla maggior parte dei genitori.
    Anche la famiglia più unita e più competente deve così affrontare non solo le difficoltà di vivere con un bambino tanto difficile, ma anche  il giudizio, le critiche e l’intolleranza di vicini, amici e parenti, della cui solidarietà avrebbe invece disperatamente bisogno.

  7. Incertezza per il futuro
    “Che ne sarà di mio figlio quando non ci saremo più noi ad occuparcene, a volergli bene?”
    Questa domanda, motivata dall’attesa di vita normale delle persone affette da autismo, accompagna come un incubo l’intera esistenza dei genitori.
    Si può anche aver superato la disperazione, aver capito l’handicap del bambino, aver imparato come comportarsi con lui; ma la paura per il suo avvenire si riaffaccia ogni mattina, ogni momento di ogni giorno che passa inesorabilmente.
    La famiglia non è tormentata solo dallo spettro di un avvenire di solitudine che attende la persona autistica quando i suoi genitori saranno troppo vecchi, malati o morti, ma anche dall’incertezza del futuro più prossimo, di ciò che accadrà domani, o fra un attimo: anche quando tutto sembra andare per il meglio si sa che in ogni momento potrebbe nascere un nuovo problema.
    La mancanza di soluzioni adeguate e dignitose per la vita adulta del figlio può trasformare ben presto lo stress in disperazione, e non esiste genitore di persona autistica che non si sia augurato di poter sopravvivere al proprio figlio, per non doverlo mai abbandonare alla solitudine e all’emarginazione.
    Questi sentimenti non fanno che aumentare i sensi di colpa e di impotenza dei genitori, e talvolta , in condizioni estreme di abbandono da parte dei servizi, possono rappresentare un rischio reale per la vita stessa della persona autistica.

  8. Isolamento
    La paura e l’angoscia che i comportamenti bizzarri e incomprensibili delle persone autistiche possono suscitare, la vergogna di essere ritenuti genitori inetti, il senso di inadeguatezza possono indurre i genitori a rintanarsi con il bambino nell’ambiente domestico e a rinunciare al proprio compito educativo,  sprofondando il figlio nel caos e la famiglia intera nell’isolamento sociale.
    Le conseguenze dell’incomprensione sociale sono ancora più devastanti quando il bambino è rifiutato dalle istituzioni a causa dei suoi problemi di comportamento o per mancanza di servizi specializzati o di personale formato e motivato. I genitori si vedono spesso costretti a implorare come un favore ciò che per gli altri è un diritto acquisito, e perfino a scusarsi dell’handicap del figlio, sentendosi perciò rifiutati essi stessi, e respinti nell’isolamento, soli contro tutti.
    Spesso la madre, per mancanza di un aiuto adeguato, è costretta a lasciare il lavoro, e a poco a poco finisce per trovarsi imprigionata in una relazione esclusiva con il bambino che la distoglie da ogni altro interesse, la isola dal resto del mondo che non capisce i suoi problemi.
    C’è un solo genitore di bambino autistico che , dopo lo choc della diagnosi, non abbia pensato: ”se c’è una sola possibilità al mondo che un bambino autistico guarisca, quel bambino sarà il mio" ?
    C’è una sola madre che, delusa dai fallimenti e dall’incomprensione dei professionisti, non abbia ceduto alla tentazione di dichiarare una sua guerra personale all’autismo, una guerra che rischia ben presto di trasformarsi in guerra contro il bambino? L’amore e la sollecitudine dei genitori più affettuosi purtroppo non bastano, e non danno loro il diritto di privare il bambino di cure adeguate al di fuori della famiglia.
    Testimonianza:
    Volevo assolutamente essere una buona madre, e pensavo di potermi occupare da sola di mio figlio. Ho tentato così accanitamente da ammalarmene, e ho dovuto riconoscere che non  ero la “mamma infallibile” che credevo. All’inizio mi è costato molto ammettere che avevo bisogno di chiedere aiuto,  ma l’ho fatto per il bene di mio figlio. (Testimonianza di una madre al seminario Daphne)

La prevenzione dei maltrattamenti in famiglia

  1. L’informazione
    Per poter mitigare l’angoscia e l’incertezza dei genitori di fronte a un bambino talmente diverso e ridurre così i rischi di maltrattamento in famiglia, é innanzitutto necessario che la diagnosi di autismo sia accessibile e precoce.
    E’ indispensabile inoltre che i genitori ricevano al più presto informazioni corrette sull’origine e le caratteristiche della sindrome autistica, in modo da poter essere aiutati a capire e ad affrontare meglio i problemi specifici del loro bambino.
    Al giorno d’oggi è inaccettabile non solo che la madre sia colpevolizzata, ma che sia anche solo sottinteso un sospetto che la diagnosi stessa di autismo può comportare: i professionisti dovrebbero essere molto espliciti su questo punto, e  sollevare fin dall’inizio i genitori da sensi di colpa e pregiudizi.
    Tuttavia l’idea che il proprio bambino sia portatore di un handicap permanente  può essere difficile da accettare: la speranza di poter risolvere ogni problema cambiando il proprio atteggiamento è molto più seducente.
    E’ necessario spiegare ai genitori che la diagnosi di handicap mentale non rappresenta una condanna a vita, che una presa in carico adeguata potrà migliorare significativamente le capacità del bambino che ha comunque diritto al rispetto e alla fiducia.
    Inoltre, data l’eterogeneità delle manifestazioni e dei livelli di sviluppo, la diagnosi di autismo non da ancora ai genitori informazioni sufficienti sul loro bambino. La diagnosi deve essere completata da una valutazione individuale delle sue capacità  e delle sue possibilità per proteggerlo da aspettative esagerate e dagli  insuccessi educativi della famiglia.

  2. La formazione
    “Il bambino non mi guarda nemmeno, non obbedisce, si comporta come se non esistessimo, sembra che ci prenda in giro. Come dobbiamo fare con lui?”
    A questa domanda molti professionisti rispondono: “Fate semplicemente i genitori”.
    Ma fare i genitori di un bambino autistico non è affatto semplice: è necessario conoscere la diversità dell’autismo, le strategie per ottenere attenzione e collaborazione, le difficoltà sottostanti ai problemi di comportamento, insomma imparare come comportarsi con lui.
    Se i servizi non offrono abbastanza informazioni e occasioni di formazione fin dall’inizio, la famiglia, per sopravvivere è costretta a cercare informazioni da sè e, nell’intento di non trascurare nessun possibile aiuto per il bambino, rischia di perdersi in una babele di messaggi confusi, continuamente sballottata fra speranza e delusione.
    Sarebbe invece opportuno che i professionisti si facessero carico anche della formazione dei famigliari, non solo attraverso corsi pratici e  la collaborazione attiva in programmi educativi individualizzati.

  3. Il coinvolgimento nella presa in carico
    La famiglia riveste nei confronti del proprio bambino un ruolo educativo primario, e nessun genitore può accettare di assistere passivamente al suo sviluppo. Un programma d’intervento dovrebbe non solo essere elaborato tenendo conto della profonda conoscenza che del proprio bambino ha ogni famiglia, delle sue priorità e del suo stile di vita, ma anche prevedere la partecipazione dei genitori come partner attivi del piano educativo.
    Sfortunatamente capita ancora troppo spesso che i genitori, e soprattutto le madri di bambini con autismo, perdano agli occhi dei professionisti la propria identità e la propria dignità personale: tutto ciò che hanno fatto nella loro vita, la loro stessa umanità vengono dimenticati e cancellati e, in quanto genitori di bambini con handicap, si sentono essi stessi giudicati degli incapaci.
    Il coinvolgimento attivo della famiglia in un programma di presa in carico aumenta le possibilità del bambino di svilupparsi al meglio, e allo stesso tempo rappresenta il modo più efficace di sollevare i genitori dai sensi di colpa e di inadeguatezza, restituendo loro il ruolo di educatori e la fiducia nelle proprie capacità.

  4. Pianificazione e coordinamento dei servizi
    L’angoscia della famiglia di fronte ad un incerto avvenire potrebbe essere sollevata da una programmazione precoce della presa in carico del bambino estesa a tutta la sua giornata e per tutta la durata della sua vita.
    Questo richiede evidentemente una collaborazione fra servizi , istituzioni e famiglie, in una coerenza d’intervento da parte di ogni persona coinvolta nel piano d’intervento, e un programma politico che preveda l’istituzione di servizi adeguati per adulti con autismo di ogni livello di sviluppo: laboratori protetti, residenze e così via.
    D’altronde è logico che un disturbo generalizzato come l’autismo che coinvolge diversi settori, educativo, psicologico, neurologico ecc. , richieda un intervento generalizzato. L’operatore o il professionista che lavorasse senza collaborare con le altre persone coinvolte nella presa in carico, compresi i genitori, sarebbe responsabile di aver negato alla persona con autismo tutte le possibili ” chances” di sviluppare le proprie potenzialità.

  5. Supporto sociale ed emotivo
    I genitori delle persone con autismo dovrebbero essere aiutati a mantenere lo stesso stile di vita e le relazioni sociali che avevano precedentemente, il che implica la disponibilità di servizi specificamente organizzati e accessibili e di personale formato e competente, per poter conservare il lavoro e la cerchia di amici, e per trovare il tempo di coltivare anche il rapporto di coppia e di occuparsi degli altri figli.
    Infatti non bisogna dimenticare che la famiglia del bambino autistico non è esonerata dai problemi di tutti, difficoltà finanziarie, malattie o obblighi nei confronti dei genitori anziani.
    Il rischio di maltrattamento comunque diminuisce se il bambino non é il perno , ma semplicemente un membro della famiglia con un problema in più.
    Qualche momento di riposo, la possibilità per genitori  e fratelli di godere di brevi periodi di vacanza confortati dalla consapevolezza che il bambino è affidato a personale competente in un contesto adeguato, consentono di ricaricarsi e di trovare nuove energie per affrontare le difficoltà della vita quotidiana.
    Anche la solidarietà e la comprensione degli altri genitori all’interno delle associazioni possono rappresentare un sostegno emotivo, ma non dovrebbero sostituire le relazioni sociali e gli interessi coltivati al di fuori dell’autismo, nè diventare una ulteriore fonte di emarginazione.
    L’aiuto concreto dei servizi per salvaguardare la propria vita sociale e relazionale all’interno e al di fuori della famiglia, una prospettiva dignitosa per il futuro del bambino, la fiducia dei professionisti e conseguentemente in se stessi e nelle possibilità del bambino, rappresentano contemporaneamente per i genitori il sostegno emotivo più efficace.

L’IMPORTANZA DELLA FORMAZIONE NELLA PREVENZIONE DEGLI ABUSI  (Theo Peeters)
I genitori e i professionisti che vivono o lavorano con persone autistiche corrono il rischio di essere sottoposti ad uno stress estremo, a causa dell’amore che provano verso le persone di cui si occupano e delle numerose difficoltà di comprensione dei loro comportamenti e delle loro emozioni. Amare una persona sofferente senza avere alcun mezzo nè alcuna idea su come poterla  aiutare costituisce senza dubbio una delle situazioni più estenuanti che si possano immaginare. In molti casi, il ricorso alla violenza rispecchia un tentativo disperato di controllare un comportamento incomprensibile che non si è veramente imparato a trattare o a prevenire

Troppo spesso la formazione nell’autismo viene vista unicamente in una prospettiva di intervento nel momento di crisi, e non abbastanza come un fattore importante di prevenzione della crisi (Jordan & Jones, 1996). Si vede spesso, e comprensibilmente, come, fin dal primo giorno di formazione, i professionisti cerchino di trovare una soluzione a breve termine a problemi a lungo termine, cioè  “una formazione fondata su un approccio-ricetta”  (Jordan, 1996a).

Quando si trattano dei problemi di comportamento ( e si cerca di prevenire il ricorso alla violenza, che rispecchia una reazione disperata a un problema di comportamento incontrollabile), è essenziale operare una distinzione chiara tra i sintomi e le cause.

Le nostre relazioni con le persone autistiche possono essere paragonate al mito di Procuste. Procuste aveva un singolare senso di ospitalità: adattava la lunghezza delle gambe dei suoi visitatori alle dimensioni del letto, tirandole o accorciandole. Anche noi sembriamo avere uno strano concetto di ospitalità: senza alcuna formazione, adattiamo le persone autistiche alle nostre conoscenze generiche. In una relazione di questo tipo, appare naturale che si venga a creare un clima di violenza, anche se non sempre deliberata o evidente.

Così la comprensione dell’autismo diventa la pietra miliare della formazione necessaria ad evitare abusi e violenze nel corso del trattamento.  Questo principio è conosciuto sotto iL nome di teoria dell’iceberg  (Gilberg & Peeters, in presse ; Peeters, 1997 ; Schopler, 1995 ; Schopler & Mesibov, 1994), che suggerisce la similitudine fra i problemi di comportamento  nell’autismo e la punta di un iceberg. La punta rappresenta il sintomo, ma la parte più importante dell’iceberg resta invisibile; la punta deriva dalla parte più vasta sommersa sotto il pelo dell’acqua.

Per esempio; quando una persona autistica lancia degli oggetti, si colpisce o colpisce un’altra persona, osserviamo dei sintomi. Per limitare o eliminare i sintomi, è necessario trattare le cause.

Se un adulto con autismo si annoia a morte perché ogni giorno ha a disposizione da sette a otto ore di tempo libero non organizzato, e picchia la testa contro il muro perché non ha altro modo di attirare l’attenzione, ne deriva chiaramente che ha bisogno di un accompagnamento pedagogico mirato a sviluppare le sue attitudini in tema di comunicazione e tempo libero.

Se al contrario trattiamo i suoi problemi di comportamento in modo sintomatico, ignorando le cause, questa è in se una forma di violenza, o di negligenza, o peggio ancora se l’educatore ricorre all’uso di punizioni. Da un punto di vista etico, è intollerabile che una persona ne punisca un’altra perché quest’ultima è incapace di comunicare come noi.

Una formazione specializzata nel campo dell’autismo costituisce la miglio forma di trattamento dei problemi di comportamento perché mette la prevenzione al centro dell’attenzione.

I professionisti devono innanzi tutto capire che le persone autistiche trattano le informazioni in modo differente. Il ragionamento autistico è un’espressione chiave in tema di prevenzione dei problemi di comportamento e la violenza non ha alcuna parentela con una qualsiasi ricetta. In sostanza, si tratta di mettersi nei panni di una persona con autismi e cercare di vedere il mondo con i suoi occhi. Quanto più riusciremo a capire le cause delle sue difficoltà, tanto più saremo capaci di eliminare gli ostacoli e di prevenire sia i problemi di comportamento che la violenza, spesso risultato di una reazione disperata.

I principi della formazione

  1. Sviluppare una buona comprensione dell’autismo
    Un professore che insegna a persone non vedenti sa che cosa significa la cecità, un professionista che lavora con persone affette da sordità non ignora gli effetti dei problemi uditivi sullo sviluppo. Chi esercita la professione nel campo dell’autismo deve comprendere correttamente questo disturbo pervasivo dello sviluppo. L’amore e l’intuizione sono necessarie, ma insufficienti. I criteri diagnostici internazionali per l’autismo (APA, 1994 ; OMS, 1992) parlano di deficit qualitativi, e la diversa qualità di certi comportamenti non è sempre facilmente comprensibile.

    In una cultura in cui spesso si enfatizzano le terapie verbali la mediazione verbale dell’educazione, è estremamente importante che i professionisti si rendano conto che un certo uso del linguaggio o della parola possono essere più d’impaccio che di aiuto per le persone autistiche.
    Un altro esempio deriva dal fatto che bambini che presentano autismo associato a un handicap mentale grave, con un’età di sviluppo intorno ai due anni (un’età mentale che permette al bambino con sviluppo normale o con difficoltà di apprendimento di parlare) possono aver bisogno di imparare a usare una modalità di comunicazione espressiva che si serve di immagini o oggetti, perché la loro capacità di derivare un significato dalle percezioni o la loro conoscenza simbolica è inferiore a quella teoricamente riferibile all’età mentale (Happe, 1995 ; Jordan, 1996b ; Peeters, 1997).
    Nel caso dell’autismo  lo sviluppo della comunicazione è vitale, se vogliamo creare delle aperture verso il nostro mondo, ma un uso scorretto della comunicazione può essere fonte di sofferenze, abusi, o anche di violenze psicologiche.

    Qualcuno ha dichiarato che le persone autistiche soffrono di cecità mentale o di cecità sociale  (Baron-Cohen, 1995). Provano un’estrema difficoltà a decifrare i nostri occhi, i nostri visi, e ancor più quando si trovano in un gruppo che a tu per tu con una sola persona (Lee et al., 1994). Questo fenomeno è spesso poco compreso e le persone autistiche, in una cultura in cui molti effetti terapeutici sono associati a situazioni di gruppo in base  al principio che altrimenti diventerebbero più autistiche, sono talvolta catapultate nei gruppi, situazione che provoca loro confusione e sofferenze intollerabili.

    Comportamenti ricorrenti, stereotipati, ossessivi possono ostacolare quella che noi chiamiamo evoluzione pedagogica, ma talvolta rappresentano la sola difesa contro il sovraccarico cognitivo e sociale presente nell’ambiente (Grandin, 1995 ; Williams, 1996), una forma di autoprotezione.
    Non si arriva automaticamente a sviluppare una forma di rispetto verso questo riflesso di autodifesa: un professionista insufficientemente formato può sbarazzarsi dell’unica forma di difesa di cui la persona autistica ancora dispone. E’ un atto crudele e violento derivato dall’ignoranza e da una carenza di formazione.

  2. La valutazione: un punto di partenza per un programma individuale
    L’autismo può essere associato a tutti i livelli di intelligenza, cosicché una conoscenza generale dell’autismo si rivela insufficiente, perché bisogna ugualmente poter disporre  di elementi relativi allo sviluppo cognitivo.
    Un programma educativo destinato a Rainman sarà certamente diverso dal programma elaborato per una persona la cui età mentale non di livello modesto. Inoltre, le persone autistiche presentano dei profili estremamente disomogenei, derivandone la necessità di  avere a disposizione informazioni dettagliate sulle diverse aree di funzione.
    Prendere l’età mentale come base per l’elaborazione di un programma educativo rappresenta una pratica professionale scadente, suscettibile di generare demotivazione, senso di fallimento e diminuzione dell’autostima. Il progetto educativo deve mirare alla riuscita, perché in mancanza di successi il personale si sentirà terribilmente stressato, e le sue reazioni negative si ripercuoteranno su terzi (Harris et al., 1996).  La riuscita si rivela possibile esclusivamente se si sono effettuate valutazioni dettagliate e concordati programmi individuali sulla base dei risultati delle valutazioni.

  3. Adattare l’ambiente
    L’adattamento è un processo reciproco. Attraverso l’elaborazione di un programma educativo specifico, il professionista cerca di adattare la persona autistica allo scopo di farle raggiungere quella che noi chiamiamo una qualità di vita. Tuttavia l’autismo è un disturbo pervasivo dello sviluppo, cosicché non ci si può aspettare che gli adattamenti provengano dalla persona autistica stessa.
    Se una persona vive in un mondo presimbolico o le percezioni non sono che percezioni (assenza di significato al di là del letterale), la sua esistenza è completamente dominata dalla coincidenza.
     

 

 

 

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